Isole Vergini Americane e il golf: diario di viaggio in Sudamerica / 3

Terza puntata del viaggio intercontinentale del nostro amico Pier Paolo Vallegra, l’italiano che ha giocato a golf una volta almeno in 161 Paesi. Dopo Panama e Venezuela l’ebbrezza dell’avventura alle Isole Vergini Americane.

“Viaggio di ritorno a Miami, via Panama, e pronti a partire per le Isole Vergini Americane, scoperte da Colombo nel corso del suo secondo viaggio nel 1493.

Si tratta di un arcipelago di 53 isole e isolotti di origine vulcanica, nel mar dei Caraibi, di cui le più importanti sono St. John, St. Thomas e St. Croix (o Santa Cruz).  E’ un territorio non incorporato degli Stati Uniti (come Guam o Porto Rico) con pieno autogoverno locale e un senato di 15 membri.

di Pier Paolo Vallegra

Le USVI vivono di turismo, pesca, canna da zucchero e ruhm. Un tempo gli Stati Uniti le utilizzavano come raffineria. Ora ne resta una enorme, gigante e arrugginita, che si specchia nelle turchesi acque caraibiche.

Nei seicento anni di storia le Isole Vergini Americane furono occupate da tutti (spagnoli, inglesi, olandesi, francesi, danesi, cavalieri di Malta e statunitensi).

Tre camere, tre codici d’accesso diversi

Una volta arrivati, ci accomodiamo al Sugar Apple, l’hotel più strano e serviceless del mondo… Per accedervi vi è una scaletta che porta a un cancelletto chiuso. L’apertura avviene con un codice di cinque cifre che nessuno mi ha mai fornito. Telefono e – poiché non esiste una reception – attendo una ventina di minuti un donnone creolo che mi spiega che la mia camera si raggiunge con un altro codice. E mi avvisa che se vorrò la colazione (è un B&B) dovrò fare una lunga scala in pietra, con accesso da un altro cancello e con un codice diverso…

La camera è spoglia, piccola, con odore di chiuso ed umido. Un bagnetto da pensione a una stella Anni ‘70. Vabbeh, è per sole due notti…

Il mattino, dopo l’ascesa, la triste colazione (vegana) con caffè lungo e latte di soia, una fetta di pane in cassetta, poca marmellata, niente yogurth. Il tutto a bordo di una piscinetta ancora più triste. L’età media degli ospiti delle altre undici camere è ben superiore alla mia, il che è tutto dire. L’unica presenza della proprietà è la creola del giorno prima, il cui tormentone era “this is’nt an hotel service”…

Il Carambola, percorso disegnato da Trent Jones Sr

Per fortuna ho il contatto del tassista che ci porta al Carambola Golf Course, un par 72 (tee bianchi 5.727 yards, i gold arrivano a 7.181), disegnato nientemeno che da Robert Trent Jones Sr. A commissionargli il campo fu Laurance Rockfeller (dalla più famosa stirpe di finanzieri degli Stati Uniti) che, dopo aver ereditato dal nonno il posto alla Borsa di New York, si dedicò ad opere in difesa della natura.

Isole Vergini Americane: si gioca al Carambola
Isole Vergini Americane: si gioca al Carambola FOTO 7

Fra queste acquistò molti terreni dapprima utilizzati per la produzione di canna da zucchero nell’isola di St. Croix, dando vita poi ad un campo bellissimo, in una valle lussureggiante. Il percorso si snoda fra migliaia di alberi, fiori multicolori e freschi ostacoli d’acqua. 

Tanto è magnifico il campo, quanto deludenti le strutture. La clubhouse è costituita da un piccolo ufficio dove una signora arcigna mi chiede 200 dollari (molto più di quanto previsto nel sito, datato 2019) e 10 dollari per ogni pallina logata (record mondiale!) con alternativa a 18 dollari per tre palline. Visa e Mastercard non funzionano: per fortuna ho con me abbastanza contante per pagare, sennò avrei dovuto richiamare il taxi…

La cosa ancor più eclatante è l’assenza non solo di un ristorante, ma anche di un semplice bar. Ed era domenica! Praticamente, a saperlo, occorreva portare i panini da casa… Un piccolo frigorifero conteneva alcune bevande (prezzi in linea…).

Isole Vergini Americane, finalmente si gioca !

Partiamo dalla 1, un par 4 di media lunghezza, largo, perfetto per i bombardieri. Per la prima volta in questo viaggio ho i miei ferri e, dopo driver e legno 3, mi trovo (è un po’ il mio destino) a venti metri dal green. Due i bunker laterali ma con un corridoio piuttosto agevole: approccio, due putt e via. 

La buca 2 è un par 5 fatto per me (in pratica un par 4 lungo, poco più di 400 metri). Dopo driver e legno 3, mi trovo a 110 metri dal green davanti ad uno stagno frontale. Un buon ferro 7 mi porta in green e con due putt mi guadagno il primo par di giornata!

La 3 è un par 4 veramente corto (279 yards), con due bunker a restringere molto il fairway. Non mi preoccupo, tanto non ci arrivo. La partenza ha palme enormi ai due lati. Il legno 3 atterra trenta metri prima dei bunker, verso sinistra. Così mi tolgo l’ansia per l’acqua a sinistra del green. Basta un ferro 7 per raggiungere un green ondulato. Due putt ed ecco il secondo par!

La buca 4 è un par 5 corto (426 yards), con acqua a destra lungo tutta la buca. Driver verso sinistra, anche perché il terreno pende a destra. Segue un legno 3, a poco più di 100 metri dal green, davanti ad un largo fossato. Questo è well-bunkered e, visto che il legno 3 è finito un po’ troppo a sinistra, oltre al fossato devo passare anche i tre piccoli bunker a difesa. Opto per un 7 ma sarebbe bastato un 8: la palla finisce un metro oltre e mi costringe ad un approccino con un 9 a correre. Putt da 70 cm e… terzo par di fila!

La buca 5

“I par 4 più belli dei Caraibi”

La 5 è il primo dei quattro par 3. Sono considerati i più belli dei Caraibi: tre (5-14 e 17) con volo sull’acqua. La 8, anche senz’acqua, è piuttosto difficile da interpretare. 138 yards tutti sull’acqua, consiglierebbero un ferro in più, tanto non è un’isola e al massimo  finisco nel bunker dietro. Ma ho i miei ferri, sono appena andato lungo alla 4 evengo da tre par. Questa miscela di cose mi porta a cercare un tiro di precisione, quasi un progetto di birdie…

Anziché prendere un comodo legnetto 7, tiro un ferro 6 (gli alisei sono a favore) che, quando parte, mi pare perfetto, alto e centrale. Però finisce contro la sponda erbosa e anziché piantarsi nel rough rimbalza all’indietro e scivola in acqua. Il mio caddie – già contrario – mi mette il legnetto in mano. La pallina atterra tre metri dietro la bandiera. Vano il tentativo di acciuffare il bogey: sbordo di un niente…

La buca 6 è un par 4 di 350 yards con una serie di bunker, uno centrale ed altri a sinistra, a 200 yards. Ovviamente a me non toccano. Piazzo il driver venti metri davanti a quello centrale. Il legno 3 di secondo va, usually, trenta metri davanti al green difesissimo da quattro bunker. Il terreno presenta una depressione: preferisco evitare il mio solito 9 a correre e tiro un sand. Non è un colpo che pratico molto (in realtà pratico poco in generale). Così, ammonito dal mio caddie nel non tentare un lob alla Mickelson, colpisco a mezza forza il 56 gradi. Finisco a tre metri dalla bandiera. Oggi il mio putt non mi dà molte soddisfazioni. Così chiudo con un bogey.

La 7 è un par 4 corto ma con uno stagno prima del green, che vanifica ogni mia speranza di prendere il green in due. Dopo il driver, venti metri prima dei due bunker centrali, mi trovo a 140 metri dal green, ma sarebbe folle tentare un legno 3 di volo sullo stagno. Quindi tiro un ferro 5 per avvicinarmi il più possibile all’acqua. Lo prendo troppo bene, e purtroppo ci finisco dentro… Il quarto è un sand non precisissimo. Morale: i due putt sanciscono il secondo doppio bogey di giornata.

La 8 è un par 3 lungo e critico. E’ un mistero perché sullo scorecard abbia un hcp 14. Sono 170 yards dai bianchi (fino a 228 dai gold), con grandi bunker dietro e uno a destra. Non volendo rischiare, tiro un 7 verso destra e tento di coprire i 40 metri restanti con un 9 nel corridoio. Arrivo appena al green, con la bandiera in fondo: mi servono due putt per concludere col bogey.

Dalla 9 in poi, tutti bogey…

Non perché il percorso sia diventato meno interessante e più prevedibile, ma in virtù di una serie di difficoltà “nascoste” per chi non conosce il campo. Tranne che nei due par 3 della 14 e 17 non si vede più acqua e quasi tutte le buche hanno bunker centrali, alcuni raggiungibili anche dai giocatori corti come me. Non finisce qua: continuano le “variazioni” introdotte da Trent Jones, come il green a due livelli della 12, la somma di difficoltà della 13 (oltre al vento, dogleg a destra, fuori limite a sinistra e appena dopo il green, due grandi depressioni del terreno che attraversano il fairway) non per nulla hcp 1. Quindi la batteria di bunkers della 16 che restringe enormemente il corridoio per arrivare in green con un colpo a correre…

Alla buca 8 uno spettatore… non pagante

Discorso a parte meritano le bellissime 14 e 17, due par 3 con volo sull’acqua… La corta 14 (120 yards) vuole un volo di palla precisissimo, in quanto la bandiera l’ho trovata proprio dietro l’insenatura verso destra che fa arrivare l’acqua a tre metri dalla bandiera.

Ricordando il disastro della 5, ho tirato volontariamente al bunker dietro il green, con un 7 a manetta, per uscire un po’ timidamente (l’acqua era a 7-8 metri) e fare due putt in sicurezza.

La 17 è ancora più corta (115 yards) ma dà un effetto trompe-l’oeil. La posizione di green e bunker a sinistra e dietro, conformano la buca, dando la netta impressione di uno shot in salita, mentre la realtà è del tutto piatta. Quindi, tu sai che sono poco più di cento metri ma hai la netta sensazione che lo score sia errato. Di conseguenza tiri almeno un ferro in più… e finisci nel bunker dietro. Si ripete la storia della 14.

Credo sia la prima volta in vita mia che, con quattro par 3 a disposizione, non solo non ho fatto neppure un par, ma esco con 3 bogey ed un doppio.

Lo scorecard

Termino comunque con un buon 89, e chiamo subito il taxista perché ci porti immediatamente in un ristorante. Sono le 15 e moriamo di fame! Per fortuna al porticciolo di Christiansted (400 metri dal Sugar Apple) i ristoranti non chiudono fra pranzo e cena, e riusciamo a mangiare un ottimo snapper (dentice) alla griglia con insalata e patate arrosto.

Nel forte danese tra le galline in strada

Il giorno dopo abbiamo l’aereo di ritorno a Miami al pomeriggio. Così approfittiamo della mattinata per visitare le Isole Vergini Americane, in particolare il sito storico nazionale di Christiansted. Si tratta di un vecchio forte danese per contrastare i pirati. Ci facciamo strada fra le numerose galline, con prole al seguito, che vivono le strade dell’isola, libere, come da noi gatti e cani randagi. Qui i galli cantano a tutte le ore del giorno.

Il taxista ci porta quindi alla vera perla dell’isola, la Sion Farm Distillery che, unica al mondo, produce una vodka, chiamata Mutiny (ispirata all’ammutinamento del Bounty). Lo fa utilizzando i frutti dell’albero del pane con l’aggiunta di erbe, frutta, caffè. Approfittiamo del tempo necessario per preparare le ordinazioni, per fare un breve giro nel piccolo impianto di distillazione, tra alambicchi a vista e inscatolamento a mano delle bottiglie.

Il mio caddie si lancia sul Guava Roast Pork (carne di maiale sfilacciata, salsa BBQ con guava su letto di polenta grigliata, cipolle rosse sottaceto ed insalata di cavolo), accompagnato da un Crucian Pittbull (Mutiny Island Vodka, cold pressed Puerto Rican Coffee infusion, Coco Lopez , Coca Cola, cinnamon).

Un piatto strepitoso, che ci induce a richiamare dalla cucina lo chef per complimentarsi: applausi e standing ovation!

E adesso sì che si può ripartire.”

(…continua)


2 risposte a “Isole Vergini Americane e il golf: diario di viaggio in Sudamerica / 3

  1. Già il golf è l’antitesi dello sport, visto il costo elevato per “giocare” e l’assenza di qualsiasi sforzo fisico per praticarlo. Se poi aggiungiamo articoli come questo che descrivono posti dove il pernottamento costa, nel più economico dei casi, 1000$ a notte, allora mi imbarazza veramente leggere articoli del genere.

    • Gentile Marcello, è un piacere esser riusciti a farle leggere un articolo sul golf visto che, di certo, lei non sa nulla di golf.

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