di Sauro Legramandi – @Sauro71
C’era il pubblico delle grandi occasioni per incontrare Phil Kenyon a Tolcinasco. Per ascoltare il verbo del putting coach di Francesco Molinari martedì 5 febbraio sono arrivati oltre centosessanta professionisti da tutta Italia. L’occasione, l’incontro organizzato dalla PGAI con il 45enne guru del putt*, era troppo ghiotta. Era di quelle da dire io c’ero. In una manciata di ore l’allenatore inglese ha tentato di spiegare il suo metodo a chi, di professione, insegna golf.
Di chi stiamo parlando: chi è Phil Kenyon
Mettiamo subito le cose in chiaro: Phil Kenyon è uno dei putting coach più bravi e più vincenti al mondo. E’ il titolare della Harold Swash Putting School e tra i suoi allievi c’è il gotha del golf mondiale. Un nome a caso: nel marzo 2018 Francesco Molinari gli ha chiesto aiuto per migliorare il gioco corto. A maggio Chicco ha vinto il BMW Championship, a giugno la prima gara sul PGA, a luglio il primo Major, a settembre è stato il protagonista mondiale della Ryder Cup e, a novembre, si è portato a casa la Race to Dubai, ossia l’ordine di merito dell’European Tour. Sarà un caso? Difficile pensarlo. Justin Rose lo ingaggiò nel luglio 2016 e ad agosto vinse l’oro alle Olimpiadi di Rio. Rory McIlroy lo ha cercato nell’agosto 2016 e a settembre ha vinto Tour Championship e FedEx Cup (ossia 11,5 mln di dollari in un giorno solo).
Se non è un guru poco ci manca. Scorrendo la lista dei suoi allievi si rilegge la storia del golf mondiale. In ordine sparso ricordiamo anche Henrik Stenson, Lee Westwood, Louis Oosthuizen, Colin Montgomerie, Alex Noren, Paul Lawrie, Danny Willett, Martin Kaymer, Tommy Fleetwood, Darren Clarke e Thomas Bjorn. Ha lavorato anche con Edoardo Molinari.
Nel suo palmares più di cinquanta vittorie su PGA ed European Tour. Tre i major vinti da giocatori che lui allenava. Alla Ryder Cup 2016 era il coach di otto giocatori sui dodici del Team Europe, a Parigi 2018 ne aveva “solo” quattro.
Kenyon lavora con la Odyssey e la sua base operativa è al Formby Hall Golf Resort, a Southport.
Molti pensano che dietro a un grande coach ci debba essere un grande giocatore…
“Io ho iniziato a dieci anni: giocavo per la mia scuola e poi per la mia università. Il migliore risultato da amateur è stato il bronzo al World Students Games per la Great Britain University. Una volta laureato sono diventato professionista. L’ho fatto per cinque anni.
Non sono stato un grande giocatore, non potevo andare molto avanti ma non rimpiango quel periodo: ho imparato molto sul golf e questo mi ha aiutato nella mia attività come coach. Mentre giocavo ho iniziato ad allenar, mi piaceva molto. Ad un certo punto ho dovuto scegliere: giocare o allenare. Nel frattempo avevo conosciuto il mio mentore Harold Swash, un amico di famiglia. E quindi mi sono focalizzato sul coaching: Harold mi ha aiutato nello studio del putt. Alla fine ho scelto la carriera del coach”.
Perché proprio il putting?
“Ho iniziato come coach di tutte le fasi del gioco poi mi sono specializzato grazie ad Harold. Ecco perché. E in pochi anni sono diventato molto richiesto”. La svolta senza dubbio nel 2008 quando fu chiamato da Henrik Stenson.
“Non tutti gli allievi sono uguali”
Ha incontrato i professionisti iscritti a PGAI. Che cosa ha detto loro?
“Ho spiegato che è necessario lavorare con l’individuo, con la persona. Dobbiamo fargli capire come deve coordinarsi e come farlo diventare una versione migliore di se stesso. Il metodo e gli insegnamenti non sono standard per tutti. Cerco di personalizzare l’insegnamento in modo da migliorare quello il giocatore che ho davanti. Punto su tre aspetti: saper mantenere la linea della pallina, controllarne la velocità e imparare a leggere il green. Mi concentro su questi tre aspetti e lo faccio usando anche molta tecnologia. E’ importante avere dati oggettivi ed affidabili su quello che il giocatore sta facendo: con la tecnologia capisci subito se apporti qualche cambiamento, capisci se il tuo lavoro porta qualche effetto. Un giocatore deve migliorare la velocità o migliorare la direzione della pallina? Penso sia una discussione senza fine”.
Cosa direbbe a un amateur per migliorare il putt?
“Direi di prendere lezioni per capire i suoi punti di forza e i suoi punti deboli. Molti dilettanti leggono, s’informano online e parlano di golf con gli amici ma non vanno da un maestro. Oppure non praticano. Invece dovete prendere lezione e praticare. Un giocatore dilettante spesso fa fatica a leggere il green: un coach gli può insegnare a capirlo. E’ questa la ricetta perfetta per migliorarsi. In particolare credo che almeno il 25-30% della sessione di allenamento debba essere dedicata al putt”.
C’è qualche metodo per migliorare la lettura del green?
“Ci sono molti metodi diversi per leggere il green. Ognuno deve sforzarsi di capire qual è il migliore per se stesso È difficile, certo. Per questo credo che un buon lavoro col coach possa aiutare nella ricerca del metodo giusto”.
“Io e Francesco Molinari”
Le va di parlare di Francesco Molinari e del suo putt?
“Quando l’ho conosciuto, Francesco aveva delle difficoltà, in particolare nel gestire la direzione. Abbiamo cambiato molte cose a partire dal set up. Abbiamo corretto posizione e postura. Sì, abbiamo fatto molti cambiamenti nelle prime settimane della nostra collaborazione. Non va dimenticato che puttando meglio il giovamento anche la testa ne trae giovamento. Il giocatore acquisisce confidenza e convinzione. Molinari di sicuro ha migliorato la tecnica, quale sia stato impatto sulla sua mente non lo so, dovreste chiederlo a lui. Penso comunque che sia aumentata la sua autostima”.
Con Molinari è un lavoro completato o in divenire?
“È un lavoro a più fasi. Più fasi di sviluppo affronti, migliore è il risultato. Spesso è facile ritornare alle brutte abitudini o vecchie caratteristiche. Cerco di far mantenere una certa tecnica e poi sviluppare nuove capacità per controllare velocità e tocco. Con lui lavoriamo ancora per affinare sia la tecnica che la lettura dei green. Giocare sul PGA è un vantaggio rispetto a giocare sull’European Tour dove puoi trovare erba diversa e green diversi. Con green veloci come quelli Usa diventa di solito anche più facile puttare. Probabilmente è perché le condizioni dei green migliorano. Allo stesso tempo però negli Stati Uniti, molti giocatori si trovano nella situazione opposta: possono trovare difficile la transizione appunto perché i green sono molto più veloci”.
Alcuni pro come Ian Poulter pensano che sia giusto buttare le green maps e tornare a leggere i green da soli. Che ne pensa Phil Kenyon?
“Non ho proprio un’opinione. Per come la vedo io, se ci sono le green maps si fa il possibile per usarle al meglio. Io mi concentro di più sul miglior modo di utilizzarle: se poi le tolgono… va bene. Allora si lavorerà sul miglior modo di leggere il green. Mi adeguo: le cose cambiano e devi concentrarti su come adeguarti. Non devi discutere sul perché siano cambiate o se non avrebbero dovuto cambiare”.
Per tutti i dettaglio sul metodo di Phil Kenyon clicca qua.
(Intervista raccolta a Tolcinasco in collaborazione con Andrea Ronchi. Un ringraziamento particolare a Martina Crotti)
* per i non addetti ai lavori: il putt è l’ultimo colpo nel golf, quello che fa rotolare la pallina nella buca. Per saperne di più leggi il dizionario del golf.
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