Seconda tappa in Africa del diario del nostro Pier Paolo Vallegra: oggi ci porta a giocare a golf in Congo. Il golfista giramondo sta portando avanti il suo sogno: giocare in tutte le nazioni del mondo con almeno un campo da golf a nove buche lungo mille metri. Adesso la destinazione “Repubblica del Congo” va spuntata.
“Il mio viaggio per giocare a golf in Congo inizia con un pranzo al Mikhae’s Hotel di Brazzaville. Il mio caddie si butta su una entrecote con accompagnamento di platano fritto. Io sono più local: un bel likouf grigliato (pescato nel vicino fiume Congo) accompagnato dal saka saka, piatto tipico congolese a base di manioca. Di livello le due birre locali: per me una Nzoko bionda e per il caddie una Ngok black, con poco da invidiare ad una Guinness…
di Pier Paolo Vallegra
Nel pomeriggio, confortati dal personale dell’hotel, siamo andati alla Basilica di Notre Dame du Congo e alla Cattedrale del Sacro Cuore.
La prima nasce in un periodo storico favorevole: Brazzaville è la capitale ufficiale della Francia libera e ha bisogno di simboli forti e visibili. Il generale De Gaulle il 29 gennaio 1944 visita il cantiere e le fondazioni, promettendo un dono di 800.000 franchi. Anche Mohamed V del Marocco e Hailè Selassiè I d’Etiopia mettono mano al portafoglio, per farne il santuario simbolo della Francia libera. I lavori proseguiranno a singhiozzo per decenni. L’iconica fleche in metallo e vetro (qui vista dalla mia finestra d’hotel, che culmina 83 metri sopra il sagrato) viene posata da un’impresa italiana, come la campana che arriva nel 2011, costruita presso le fonderie pontificali Marinelli di Agnone.
Le 240.000 tegole di colore verde rievocano la natura lussureggiante dell’ambiente equatoriale. La loro forma a scaglie di serpente ricorda le guglie delle cattedrali medievali. Il messaggio? Il maligno resta fuori dalla chiesa. Il risultato è spettacolare, fuori e dentro!
A confronto, appare più simmetrica la Cattedrale del Sacro Cuore, consacrata a fine XIX secolo, visitata da De Gaulle nel 1944 e da Giovanni Paolo II nel 1980. La chiesa ha uno stile semplice e coloniale, con i mattoni a vista e la struttura ad alveare.
Golf in Congo: nove buche, una sola bandiera
Il mattino seguente, finalmente dopo un’ottima colazione con mango, papaia, melone, banane ed altra frutta fresca a chilomentro zero, cappuccino, brioches, confetture e varie tipologie di pane fresco, ci avviamo al Brazza Golf Club. Si tratta di un nove buche lungo le sponde del fiume Congo, su cui si aprono ampi squarci, con visione della dirimpettaia Kinshasa.
Il campo è all’interno dell’area di competenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, di cui è headquarter per l’Africa. Entriamo dal cancello OMS e, una volta appreso il motivo, gli onnipresenti militari ci fanno passare.
Arrivati alla minuscola ma lindissima clubhouse incontro Antoine, il gestore del club, con cui avevo avuto contatti solo via whatsapp. Pronti, si parte!
Golf in Congo: nove buche, una sola bandiera
Inizio con il mio caddie Barthélemy e un ragazzo più giovane munito di una sola bandiera gialla, visto che il costo di nove bandiere pare sia proibitivo per il circolo. Dal canto suo Antoine mi invita a pagare mille franchi (meno di due dollari) l’ingaggio per il caddie.
Il campo, sotto un’afa soffocante ed umidiccia, si rivela un susseguirsi di up & down, tanto che dopo i bogey della 1 e della 2 (quasi un chilometro in salita) avevo una mezza idea di ritirarmi, se non fosse per gli oltre 5.500 Km in linea d’aria fatti per arrivare fin qui… Barthélemy mi consola dicendomi che la 3 e la 4 sono in leggera discesa e la 5 quasi parallela alla 1. Mi preoccupa non mi parli delle ultime quattro. Eppure decido di continuare. Il mio caddie ufficiale, con problemi di deambulazione, intanto mi aspetta in clubhouse.
In effetti la buca 3 è in discesa, ma essendo un par 3 di 145 metri (dai verdi) non è un vantaggio. Con un legnetto 7 arrivo a dieci metri dal green, approccio con 9 a correre e putt da due metri per il primo par di giornata.
La quattro è un par 4 corto (295 metri) in leggera discesa. Dog leg a sinistra e, dopo un drive ben piazzato, raggiungo il green con un legno 6 e rischio il birdie, sbordando da quattro metri. Altro par.
La buca 5 è un par 4 ancora più corto, in discesa. Non capivo perché fosse considerata la più difficile del campo. E ancora non mi è chiaro: io ci ho fatto doppio bogey solo perché ho preso un bunker e sono uscito troppo forte a sinistra, finendo fra le piante.
Con la 6 torna la salita, ma il par 4 è cortissimo (177 metri, hcp 17). Diritto, con un solo bunker a difesa del green. Sono stato tentato di tirare al green col drive (mai successo in un par 4) ma, convinto dalla salita e dal vento leggermente contrario (finalmente si respira), ho preferito tirare un ferro 7 e poi un 10, sicuro al 90% di prendere il green in due. Ho sfiorato il birdie, comunque terzo par di giornata.
La 7 è in discesa, 332 metri con bunker a difesa del green. Ci arrivo con il terzo colpo, due putt: bogey.
La 8 è un par 3 piuttosto lungo (151 metri dai verdi, 185 dai bianchi). Legno 3 davanti al green, 9 a correre, putt: par.
Il rush finale della buca 9
Quando arrivo, quasi in stato di incoscienza per la fatica, sul tee della 9, guardo una salita infinita, e Barthélemy mi spiega che la bandiera è in discesa 60 metri dalla sommità della collina. Gli chiedo se c’è una scorciatoia per raggiungere la clubhouse senza fare la salita. Vorrei tanto fermarmi per un’ora, bermi una birra, e poi tornare e chiudere le nove buche.
Il caddie mi dice che, malheureusement, per andare in clubhouse, bisogna fare per forza la 9, perché la clubhouse è 50 metri a sinistra del green. Mi rincuora dicendomi in inglese: “Take your time…” Mentre ci penso, cerco di sedermi su un moncone di tronco ma Barthélemy mi ferma perché nel buco interno vive una numerosa famiglia di formiche rosse. Prezioso !!!
Alla fine, decido di provarci: tiro un drive, poi mi trascino per tirare un legno 3, poi ancora un legno 3. A metà buca la salita si fa più dolce e mi riprendo un po’… Arrivando sulla pallina per il quarto tiro vedo la bandiera, e tiro un wedge sbilenco. Vado nel bunker a sinistra del green: col quinto arrivo in green, ma imbuco col secondo putt (doppio bogey). Finale: 43 (4 par – 2 doppi bogey).
Raggiunta la clubhouse ringrazio e mi sistemo a modo mio col caddie, delegandolo a pensare anche al caddie della bandiera che, silente, ci aveva seguito (anzi, preceduto) per due ore.
La storia di Pietro di Brazza Savorgnan
Tornando in hotel chiedo al taxi di fermarsi qualche minuto al Mausoleo di Pietro di Brazza Savorgnan, dov’è sepolto un personaggio unico. Pietro nasce nel 1852, decimo di tredic figli di un conte friulano e di una marchesa. Cresce nella Roma pontificia ma a 15 anni si trasferisce in Francia a studiare dai gesuiti, poi intraprende la carriera militare in Marina. Prende la cittadinanza francese, fa tre spedizioni in Africa equatoriale. Quindi viene nominato Commissario generale per l’Africa Equatoriale Francese, poi governatore del Congo, quindi destituito per la sua contrarietà alla politica di sfruttamento coloniale francese. Muore a Dakar a 53 anni, forse di una malattia tropicale, forse avvelenato. Viene sepolto ad Algeri, avendo la moglie rifiutato il Pantheon proposto dal governo francese.
Nel 2016 le sue spoglie furono traslate da Algeri a Brazzaville (che mutua il suo nome proprio da Pietro di Brazza) nel Mausoleo costruito in suo onore. La storia di Pietro da Brazza mi riporta ai miei vani tentativi di tentare di farmi un’idea lineare della tortuosa e frammentaria storia del Congo.
La complicazione nasce dal fatto che il Regno o Impero del Congo fu uno stato dell’Africa occidentale esistito fin dalla fine del ‘300 e l’inizio dell’800, il cui territorio comprendeva parte dell’Angola, la Repubblica del Congo e parte della Repubblica Democratica del Congo.
Dalla fine del ‘500, con la conversione al cattolicesimo, fu influenzato alternativamente da Portogallo, Belgio, Francia, Olanda. In mezzo un susseguirsi infinito di guerre fra diversi regni, ducati, dinastie ed etnie, volta per volta spalleggiate dalle potenze europee.
Lo spartiacque avvenne con la Conferenza di Berlino del 1885: l’area ad ovest dei fiumi Congo e Ubangi divenne un protettorato francese. Nel 1910 Brazzaville divenne capitale dell’Africa Equatoriale Francese (con Gabon, Ciad e Repubblica Centrafricana).
Nel 1958 la colonia fu divisa nei quattro stati attuali e il 15 agosto 1960 la Repubblica del Congo divenne indipendente. Seguirono anni di disordini etnici e politici, governi militari, colpi di stato. Nel 1968 la Repubblica Popolare del Congo divenne il primo stato marxista-leninista dell’Africa.
Servirono il collasso dell’URSS nel 1991 e nuove elezioni per tornare alla Repubblica del Congo e perdere il carattere ideologico filosovietico. La trasformazione non fu certo in senso liberale, anzi il sistema divenne autoritario/personalistico, allineato con la Francia e gli stati afro/portoghesi.
Nel 1997 ci fu uno scontro fra due fazioni politiche, vinto in pochi mesi dal generale Denis Sassou Nguesso, appoggiato dall’Angola, che, dopo la prima presidenza dal 1979 al 1992, riprese il potere e lo tiene ben stretto da ormai 26 anni, modificando la Costituzione.
Al rientro in hotel la stanchezza era superiore alla fame, per cui ho praticamente saltato il pranzo. Mi sono rifatto la sera, con un bouillon de machoiron pescato nel Congo. Alla vista fa un po’ impressione, ma era buonissimo!
Segue sveglia all’alba per spostarsi in aereo di una ventina di chilometri. Destinazione Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica nel Congo.