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Giocare a golf nelle Antille Olandesi 2: Aruba e Sint Maarten

Prosegue il viaggio di Pier Paolo Vallegra per farci scoprire il golf nelle Antille Olandesi. Pier Paolo è un amico di “Golfando” che ha già giocato in 158 Paesi in giro per il mondo. Per il nostrp blog scrive i diari dei suoi viaggi più recenti. Dopo la tappa a Curacao ecco il racconto di altri due percorsi. Non vi viene voglia di partire?

Il giorno dopo partenza per Sint Maarten, che comprende un terzo dell’isola mentre il rimanente a nord è francese. L’aeroporto Princess Juliana è famoso per gli aerei che atterrano passando a 35 metri sulla testa dei turisti della spiaggia di Maho.

di Pier Paolo Vallegra

Vista la sua posizione strategica, l’isola fu occupata nel tempo da varie potenze europee. come francesi, olandesi e spagnoli. Per lavorare nelle piantagioni di cotone, tabacco e zucchero, furono importati numerosi schiavi africani, con una lunga storia di rivolte e sanguinose repressioni. Sint Maarten, che dagli Anni Cinquanta ha visto la popolazione passare da cinquemila a 60.000 abitanti sotto la spinta del turismo, ha una pessima nomea. Si parla di presunte infiltrazioni malavitose, di gioco d’azzardo illegale e traffico di stupefacenti. Da una ricerca del 2014, Sin Maarten ha più macchine da gioco per residente di qualsiasi altro Paese al mondo…  

Trovandosi nel nord dei Caraibi, è in zona uragani, e nel 2017 è passato di qua Irma, causando ingenti danni.

Golf nelle Antille Olandesi 2: Mullet Bay


L’unico campo è il Mullet Bay (ovviamente Resort and Casino). Si trova a un chilometro da El Zafiro Boutique Hotel (300 dollari a notte, posizione fantastica ma servizi pessimi). E’ un 18 buche, le prime 13 tutte intorno al Mullet Bay Lagoon. Campo corto, da turisti, anche se il vento onnipresente complica parecchio le cose. Disegno magnifico! Peccato che nel 1995 il campo sia stato devastato da un altro uragano e da allora sia in uno stato di semi-abbandono.

Il primo impatto è con la clubhouse, se così vogliamo chiamarla…

L’ingresso della clubhouse del Mullet Bay

Mi trovo davanti a una porta blindata con tre cartelli che invitano a mettersi la mascherina. Nessuna indicazione che richiami al golf. Se non mi avesse assicurato il tassista che quella era la clubhouse (è sulla strada) non l’avrei mai trovata. Dentro una grande sala semibuia del tutto spoglia, con in fondo un donnone creolo (senza mascherina) dietro a una piccola scrivania, senza un computer né alcun segno del ventunesimo secolo. Lei incassa il green fee (nessuna ricevuta) e fornisce acqua o qualche bibita gassata, prelevandole da un vecchio frigorifero. Il frigo, la scrivania e la sedia sono tutto l’arredamento della “clubhouse”.


Fuori si apre un’altra porta che dà su un ambiente di quattro metri quadrati con tre o quattro sacche. Nessun essere umano in vista… E’ un miracolo che siano in vendita palline loggate (tre per dieci dollari).

Poggio la sacca sull’unico car all’esterno e parto verso l’ignoto (la creola mi ha genericamente fatto un segno con il braccio per indicarmi la buca 1, sempre dalla sedia). Chiedo di un ristorante, o almeno un bar… Mi dice che bisogna andare alla spiaggia. “A piedi?” “No, serve l’auto!

Lo stato del campo è riassunto nella foto che segue:

Pier Paolo Vallegra al Mullet Bay

Il numero della buca, di tutte le buche, è indicato da un cartello piantato in un albero vicino al tee di partenza. Punto: non c’è altro…

Però, nonostante questa situazione quasi paradossale, inusuale pure a Gibuti, in Zambia o in Malawi, conservo un bel ricordo di questo campo. Infatti non ho mai visto le palline correre così tanto!

Tiravo dei driver a 20-30 metri oltre le mie possibilità. Raggiungevo i par 4 in due colpi, anche quando dallo scorecard era fuori discussione! Alla cortissima buca 2 (par 4 di 236 metri) è uscito addirittura un birdie, alla buca 3 (par 4, 330 metri) ho raggiunto facilmente il green in due (anzi sono finito lungo, dietro la bandiera) e ne è uscito un par.

La buca 7 è una delle quattro in cui c’è un carry over water (che io amo moltissimo) di 108 yards (la buca ne misura 148): par, obviously. La buca 11 è il secondo par 3 con il volo sull’acqua per ben 132 delle 155 yards. Stavolta ho esagerato tirando un legnetto 7 a manetta e sono andato lungo (non ci sono abituato!): un onorevole bogey.

Ho atteso sino alla buca 14 per un altro par, volando sull’acqua anche ai due par 4 della 12 e della 13 (70  e 65 yards). Buca diritta, senza bunker, relativamente corta, anonima.

L’unico doppio bogey l’ho trovato alla 16 (par 5 di 443 metri, hcp 2) dove ho sbagliato il driver. Infatti ho voluto rimediare, tentando un colpo che non è nelle mie corde, pasticciando, e meritandomi il doppio bogey, fra l’altro salvato con un putt da 5 metri…

Dopo le sfavillanti prime nove (40 colpi), un 44 sulle seconde, per un totale di 84 (par 70).

Un finale coerente con l’avvio di giornata: al ritorno (ore 16.30) non c’era più nessuno. La creola aveva chiuso baracca e burattini e non sapevo come chiamare il tassista perché mi riportasse in hotel. Ho fermato un camioncino guidato da un vecchio artigiano, che gentilmente ha chiamato col suo telefonino (“no tengo mucho crédito…”). Con cinque dollari di propina ho risolto un grosso problema, visto che nelle vicinanze non c’era anima viva a vista d’occhio…

Il giorno dopo ritorno a Curaçao, con visita al caratteristico Fort Beckenburg, del tutto simile alla Torre degli Scacchi, per partire quindi per l’ultima isola del trittico.

                                                                       

Fort Beckenburg

Golf nelle Antille Olandesi: Aruba

Aruba è un’isola pianeggiante, arida, così poco adatta alle piantagioni che mai vi fu importazione di schiavi tanto che, a differenza delle altre isole caraibiche, la popolazione è in genere bianca, con avi olandesi o sanguemisto europei/Arawak. Tutto ciò che si mangia viene importato e le uniche due attività di rilievo, oltre al turismo, sono la raffineria di petrolio (affittata a Maduro) e la produzione di aloe vera, soprattutto per l’industria cosmetica.

Anzichè il più noto Tierra del Sol, flagellato dal solito vento a raffiche delle isole, ho scelto il piccolo Links at Divi Aruba GC, più riparato. Si tratta di un nove buche (spacciato per 18 con doppie partenze a tre metri di distanza e a volte affiancate) che, a dispetto dell’aridità circostante, ha fairway morbidi e green ben tenuti. Caro (96 dollari per nove buche, 137 per diciotto) con tanta acqua, ma quasi sempre – come dice il mio caddie – de adorno, cioè che non entra in gioco, se non al secondo colpo del par 4 della 9, con green ad isola.

                                                           

“Pronto per il tee shot ad Aruba”

Pur non essendo un campo indimenticabile, è piacevole da giocare, con green da interpretare, tanto che, a dispetto delle modeste dimensioni (2.649 yards le prime nove, con tutti i par 4 sotto i 300 metri), ho portato a casa solo due par. Vale a dire il par 4 della 3 e il corto par 3 della 5, per un 43 senza infamia e senza lode.                                             

Un esemplare di teru teru ad Aruba

Alla partenza della 9 abbiamo goduto della compagnia di un teru teru, tipico uccellino sudamericano dal suono inconfondibile.. Questo volatile ha la caratteristica di “difendere il luogo sbagliato”, cioè protegge le uova ed i piccoli spostandosi dal loro nascondiglio e, gridando, fa finta di covare a qualche metro di distanza. Ne parla anche il grande poeta José Hernàndez nel poema epico argentino Martin Fierro: “…dei mali di cui soffriamo parlano i paesani, ma fanno come gli uccelli che, per nascondere il nido, gridan forte da una parte e dall’altra tengon l’uova“.

L’unica attrazione dell’isola, al di là delle spiagge tanto amate dai turisti, sono le formazioni rocciose di Casibari e di Ayo; per un’isola piatta come Aruba, la presenza di queste colline costituite da enormi massi monolitici in tonalite, rappresenta un vero enigma. 

E con questo siamo a 158 Paesi dove ho giocato a golf!            

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