Il golf che mi piace è fatto anche di storie. Quella di Jeff Bezos in un campo della provincia piacentina l’ha vissuta Andrea Bricchi, amico del nostro blog ed imprenditore con molte esperienze di studio americane. Andrea racconta una mattinata trascorsa (a sua insaputa) con l’uomo che sarebbe diventato il più ricco del pianeta. Da quelle 18 buche Bricchi ha tratto un grande insegnamento. (s.l.)
“C’è un americano che aspetta, un certo Jeff Bezos”
di Andrea Bricchi (@andreabricchi77)
Un sabato, forse dodici o tredici anni fa, mi presentai come sempre al mio golf club, un nove buche in provincia di Piacenza. Saranno state le 9 del mattino di una giornata di fine primavera molto soleggiata e con un venticello estremamente gradevole. Una di quelle giornate che ti fanno capire che Dio dev’essere golfista e velista.
Nel primo caso perché quei giorni sembrano dipinti apposta per farti stare sul campo come si starebbe nell’Empireo. Nel secondo per approfittare di allegre nuvolette che regatano di poppa, a spinnaker spiegati.
Entrai nella clubhouse fischiettando e ordinai il mio consueto caffè. Vidi arrivare il segretario, tutto trafelato, agitando i soliti fogli delle partenze della gara domenicale: “Andrea, era ora che arrivassi! A che ora parti domani? Ah, c’è uno che parla solo inglese che aspetta da mezz’ora qualcuno con cui giocare”.
-”Dov’è?”
-”Vicino al tee della 1”.
-“Vado io. Domani dammi una delle ultime partenze, basta che tu non mi metta con dei rompic…”.
“Un omino che guardava una quercia
Mi avviai nel vialetto bordato di lavanda e rosmarino. E vidi un omino di media corporatura, calvo, guardare una quercia secolare appoggiato al suo carrello.
-“Hi!”, gli dissi, tendendogli la mano con un sorriso.
-“Hi!”, fece lui, rispondendo al mio sorriso e stringendomi la mano.
-“Facciamo un giro assieme?”.
-“Volentieri!”.
E via.
Per le prime tre buche non parlammo d’altro che di golf. È quasi naturale, del resto. Per prima cosa lui non aveva mai giocato su quel campo. Quindi, ogni volta chiedeva informazioni sulla buca da giocare.
“Qui è tutto dritto fino in fondo. Un par 5 piuttosto lungo – le mie indicazioni -. Il fairway trae in inganno, piega leggermente a sinistra verso metà, quindi è facile sbagliare a destra. Attenzione al fuori limite, soprattutto. Una volta con uno slice sono entrate in quella casa lì. Sbagliare a sinistra, invece, non fa nessun danno e, anzi, accorcia la buca. Dal fairway della 2 si può giocare al green o semplicemente fare un lay up per tornare in pista. Che handicap giochi?”.
“Lavoro per Amazon. Conosci Amazon?”
La risposta non la ricordo, ma da come giocava poteva essere tra 15 e 20, direi. Le buche uno, due e tre se ne andarono così, tra un ibrido, un approccio e un putt.
E mentre arrivavamo sul tee della 4 gli chiesi: “Di dove sei?”.
– “Usa”, la risposta
– “Oh! La mia seconda patria! Ho studiato un po’ lì, soprattutto a New York, poi Boston… E ho tanti amici, oltre a una sorta di ‘famiglia americana’ con cui sono sempre in contatto. E come mai qui in Italia?”.
-“Per lavoro”.
-“Che lavoro fai?”.
-“Lavoro per Amazon. Conosci Amazon?”.
In realtà no, non la conoscevo. Nessuno la conosceva all’epoca. Ne avevo sentito parlare, forse, ma mi spiaceva rispondere di no, quindi dissi: “Certo!”.
Lui si sorprese abbastanza, mi guardò strabuzzando gli occhi e disse: “Oh, really?”.
Al che andai un po’ in difficoltà. Abbozzai..
-“Sure. Fate… Insomma… è un editore. Fa libri. Pubblica libri. Giusto?”.
-“Sì, giusto – disse lui – Facciamo anche libri” proseguì con un sorriso.
Era una persona molto piacevole
Le diciotto buche furono davvero ben giocate. Verso l’una avevamo finito. Il tempo di una doccia, in cui probabilmente cantai come di consueto, e poi un bel pranzo piacentino assieme. Mi disse che Amazon aveva deciso di aprire un grosso polo logistico qui da noi (Castel San Giovanni, ndr) e stavano valutando bene dove, come e quando. Questo era il motivo del suo viaggio.
Dopo il caffè chiese un foglietto e una penna al cameriere. Era un foglietto piccolo, da block notes, a quadretti. Scrisse il suo nome in stampatello, in alto, con la tipica calligrafia americana. Sotto mise un numero di telefono.
“Chiamami se passi dalle mie parti” disse mentre me lo porgeva. Pensai che sono un uomo della East Cost. A Seattle non sono mai stato e in California non ci vado spesso. Ma era talmente gentile e simpatico che gli dissi solo: “Sicuro! Spero di rivederti presto”.
Dopo qualche giorno ritrovai il foglietto appallottolato in una tasca. Rimasi un momento a riflettere, poi pensai che tanto non l’avrei mai più rivisto e lo buttai nel cestino.
“Jeff Bezos”
Ricordo che mi stupì il suo nome. Era un nome tipico americano, come quello di uno dei miei migliori amici, che oggi fa l’avvocato a New York mentre il padre ha dei ristoranti a Long Island. Il nome era Jeffrey, per gli amici Jeff. Ma più di tutto mi stupì il cognome, perché era spagnoleggiante, Bezos. Baci… Goffredo Baci. Ossia Jeff Bezos”.
Solo dopo anni capii. Probabilmente non mi avrebbe mai risposto. Chissà se si ricorda di me…
La cosa che più mi ha colpito, ricordando le nostre 18 buche a posteriori, è che non ha mai avuto, per un solo momento, un atteggiamento arrogante o vanitoso. E non ha detto sono il proprietario di Amazon bensì lavoro per Amazon. Non l’ha nemmeno scritto. Sul foglietto ha messo solo il nome e il numero di telefono, nient’altro.
Riflettendoci bene, in effetti, anche se quel numero l’ho buttato, ho tratto grande vantaggio da quell’uomo. Mi ha insegnato l’umiltà.
Grazie Jeff, chissà che un giorno non si possa giocare ancora assieme, però ti avverto: gioco molto meglio!